Riparare: non solo oggetti, anche legami
Abbiamo dimenticato come si ripara. Ma il mondo e il cuore chiedono proprio questo: meno scarto, più cura.
Una volta si aggiustava tutto. Non si buttava niente senza averci provato almeno due volte. Le sedie traballanti venivano rinforzate con un po’ di colla e pazienza, le calze rammendate alla luce fioca della sera, e i piatti sbeccati continuavano a servire le cene della domenica come se nulla fosse. Non c’era vergogna nel riparare. Anzi, era segno di rispetto, di amore per ciò che si possedeva. Per ciò che aveva vissuto con noi.
Poi, lentamente, abbiamo iniziato a pensare che riparare fosse inutile. Troppo faticoso. Troppo lento. E mentre diventavamo veloci a scartare, diventavamo anche più fragili. Abbiamo cominciato a buttare tutto appena mostrava un segno di stanchezza: oggetti, vestiti, parole. Anche le relazioni. In fondo, ci siamo detti, si può sempre ricomprare, si può sempre ricominciare da capo.
Ma non tutto è sostituibile.
Anzi, le cose più importanti quelle che ci tengono in piedi, che ci nutrono spesso hanno bisogno proprio di essere riparate, non sostituite.
C’è un gesto che mi torna in mente ogni volta che penso a questa parola: mia nonna che con un ago sottile ricuciva la fodera di un cuscino, senza fretta. Diceva sempre che le cose rattoppate sono le più comode, perché ci si affeziona. Quanta verità, oggi più che mai.
Riparare è un atto di sostenibilità affettiva, perché ci riporta al valore della cura. Prendiamo ad esempio un mobile che ha una gamba rotta. Potremmo buttarlo, certo. Ma se decidiamo di sistemarlo, lo guardiamo meglio, ci accorgiamo dei suoi graffi, dei ricordi legati a quel tavolo, a quelle cene. E quando lo rimettiamo in piedi, è un po’ come se rimettere in piedi anche noi stessi. Riparare qualcosa significa riconoscerne il valore, anche ferito.
Vale anche per i rapporti. Abbiamo smesso di riparare legami. Appena si incrina qualcosa, ci allontaniamo. Ci chiudiamo. Pensiamo che lasciar andare sia più semplice, più pulito, meno faticoso. Ma è proprio lì, in quel momento, che servirebbe fermarsi, respirare e provare a ricucire.
Ricucire non vuol dire dimenticare il dolore.

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Vuol dire scegliere di guardarlo in faccia, di prenderci cura della frattura invece di nasconderla sotto il tappeto. Vuol dire fare una telefonata che abbiamo rimandato, scrivere una lettera che pesa sul cuore, chiedere scusa. A volte basta un gesto, una frase semplice: ti ho pensato, mi dispiace, ci tengo. E qualcosa si apre. Una crepa diventa spazio di dialogo.
Riparare richiede tempo. Richiede volontà.
E in un mondo che corre, questa lentezza può sembrare scomoda. Ma proprio perché è scomoda, ci trasforma. Ci educa alla pazienza, alla responsabilità, all’amore vero. E ci libera da quell’idea tossica che tutto debba essere perfetto o funzionare al primo colpo.
Anche con noi stessi. Quante volte ci sentiamo rotti, difettosi, inadeguati? Eppure siamo fatti per essere riparati, non per essere scartati. A volte è proprio da una ferita che nasce il cambiamento. Come il kintsugi giapponese: l’arte di riparare con l’oro. Le crepe non si nascondono, si valorizzano. Perché è lì che la vita ha lasciato il segno.
Oggi più che mai, riparare è un atto rivoluzionario.
È dire: non accetto di vivere in un mondo che butta tutto voglio imparare a custodire.
Un paio di scarpe che possono ancora camminare. Un’amicizia che può ancora parlare. Un pezzo di cuore che può ancora fidarsi.
Nel mio piccolo, ho iniziato a scegliere la via della riparazione.
A volte è una cerniera sistemata, altre un silenzio rotto da un messaggio sincero. Ma ogni volta, sento che qualcosa si ricompone anche dentro di me. Non perfetto, non identico a prima. Ma più vero. Più forte.
Perché il futuro non è fatto di plastica nuova, ma di gesti antichi da riscoprire.
E riparare è uno di quelli. È tenerci stretti. È ridare valore. È sostenere, col cuore.
° il futuro inizia da una condivisione°
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